La vulnerabilità negli occhi di Ignazio

13 Ottobre 2021Articolo

Tiziano Ferraroni SJ riflette sull’importanza della vulnerabilità per Sant’Ignazio e nella fondazione della Compagnia di Gesù. Egli vede l’accettazione dell’innata vulnerabilità dell’umanità come una sfida importante per la società contemporanea.

 

Se chiedessimo a Ignazio di Loyola di dire una parola di consolazione o di dare un consiglio a noi, uomini e donne dell’epoca COVID, figli e figlie di una società che ha provato a cancellare ogni traccia di vulnerabilità e che la vede riemergere, minacciosa e destabilizzante come sempre? Forse Ignazio ci offrirebbe qualche “regola per comportarsi nel tempo della vulnerabilità” come lo ha fatto “per ordinarsi nel mangiare” o per “distribuire elemosine”? Ci proporrebbe qualche esercizio per attraversare la vulnerabilità, lui che sapeva consigliare l’esercizio adatto per ogni momento spirituale? Sicuramente non si lancerebbe in una lezione sulla vulnerabilità, dato che non amava i grandi discorsi, ma prediligeva le semplici conversazioni. Ciò che è più probabile, è che Ignazio si metterebbe semplicemente a raccontare la sua storia. Ci consegnerebbe la sua storia di vulnerabilità. D’altronde, è quello che ha fatto quando i primi compagni gli chiesero con insistenza di lasciare per iscritto il racconto della sua conversione, come “testamento” (Prologo di Nadal all’Autobiografa [2]) per “fondare veramente la Compagnia” (Prologo di Câmara all’Autobiografia [4]).

Possiamo immaginare che Ignazio, con un linguaggio un po’ più adatto al mondo contemporaneo rispetto a quello impiegato cinque secoli fa, comincerebbe a raccontare di quella ferita da cui tutto ebbe inizio, quando, durante la battaglia di Pamplona, la sua gamba fu colpita da una bombarda. Condividerebbe allora come si sentì perso durante i mesi di convalescenza, quando non poteva più godere delle consolazioni abituali – il gioco, le dame, le armi –, e quando si rese conto che la sua vita sociale era in parte compromessa, poiché avrebbe zoppicato per tutta la vita. Insomma, non era solo la sua gamba che era stata ridotta a brandelli, ma la sua stessa identità. Forse Ignazio si spingerebbe fino a confidarci che in certi momenti si sentiva travolgere da un’ondata di disperazione, come se un liquido nero invadesse il suo cuore.

Insomma, non era solo la sua gamba che era stata
ridotta a brandelli, ma la sua stessa identità

Ricordando questi momenti, Ignazio assumerebbe un’aria grave, ma il volto sereno e il tono pacato della sua voce lascerebbero trapelare il seguito della storia. Proseguirebbe infatti affermando che quella ferita non fu la fine, ma l’inizio: che fu proprio quella ferita a spingerlo a chiedere aiuto agli altri, e ad accogliere l’aiuto che gli era offerto; che fu quella ferita a costringerlo a trascorrere lunghe ore di silenzio e di solitudine, leggendo e meditando la Vita di Cristo e la Vita dei santi. Non senza qualche lacrima di commozione, dichiarerebbe: “In quel letto di Loyola ho imparato a distinguere le parole che mi davano vita da quelle che mi portavano morte. In quel letto, per la prima volta, mi si sono aperti gli occhi, e improvvisamente tutto mi è sembrato nuovo, vivo, diverso. Dio era lì, ovunque, lo sentivo presente. Durante quei giorni ho sentito la Vita che sbocciava in me, e non l’ho più lasciata, ed essa non mi ha più lasciato”.

Si fermerebbe a questo punto del racconto, Ignazio? O proseguirebbe narrando le ulteriori prove che la vulnerabilità gli riservò lungo il cammino, prove che si rivelarono occasioni in più per far crescere la vita che era sbocciata in lui? La più terribile fu la prova degli scrupoli, quando lo assalì l’incontenibile angoscia di non essere capace di corrispondere adeguatamente all’amore di Dio. Lottava contro se stesso, lottava contro la propria vulnerabilità. Finché, non trovando altra via d’uscita, gridò a Dio. E Dio rispose, e Ignazio si sentì inondare dalla sua misericordia. A partire da quel momento abbandonò il disprezzo che aveva nutrito per il suo corpo. I suoi occhi cominciarono a guardare se stesso, e gli altri, con gli occhi di Dio. Il suo sguardo si era trasformato: era diventato uno sguardo vulnerabile, che si lasciava ferire, con serenità e dolcezza, da tutto ciò che lo circondava (Vedi Autobiografia 1-37).

Forse il mondo contemporaneo, alle prese con alcune manifestazioni
acute della vulnerabilità, ha semplicemente bisogno
di racconti che la aiutino a non aver paura della vulnerabilità

Possiamo immaginare che, arrivato a questo punto, Ignazio smetterebbe di parlare, rivolgendo su di noi proprio quello sguardo vulnerabile. Si congederebbe così, in silenzio, dopo averci consegnato il suo racconto. Non aggiungerebbe altro, perché consapevole che nei momenti in cui la vulnerabilità si fa sentire, non sono i grandi discorsi che aiutano, ma i racconti di chi è passato per una strettoia e può riferire di esserne uscito vivo, anzi, più vivo. Ai primi compagni che chiedevano a Ignazio di lasciare un “racconto delle origini”, un racconto che potesse fungere da “mito fondatore” della Compagnia, Ignazio consegnò una ferita, e tutto ciò che da essa è scaturito. Implicitamente affermò che la sua vita era nata da una ferita, che la Compagnia di Gesù è nata da una ferita. Forse il mondo contemporaneo, alle prese con alcune manifestazioni acute della vulnerabilità, ha semplicemente bisogno di racconti che la aiutino a non aver paura della vulnerabilità, a non scappare; ha bisogno di racconti che lascino intravvedere la carezza sulla ferita, la vita che sgorga dalla ferita. I racconti non ci mancano, primo fra tutti quello di Gesù Cristo, poi quello di Ignazio e di tanti altri testimoni. Potremmo aggiungerne altri: il mio, il tuo…

Written byÉcrit parEscrito porScritto da Tiziano Ferraroni SJ
Tiziano Ferraroni SJ è un gesuita italiano, membro della Facoltà Teologica di Napoli. È professore di Teologia Spirituale e Spiritualità Ignaziana.

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